Intervista a Francesco Dezio: scarnificare le parole per raccontare il Sud Italia
La passione per il disegno e il lavoro in officina hanno da sempre fatto parte della vita dello scrittore pugliese Francesco Dezio e questo si denota benissimo dalle pagine dei suoi libri Nicola Rubino è entrato in fabbrica (TerraRossa Edizioni, 2017) e La gente per bene (TerraRossa Edizioni, 2018), che rappresentano due validi capisaldi di quella che potrebbe essere definita letteratura industriale e che descrivono rispettivamente e con fredda lucidità la vita in fabbrica e la disoccupazione.
Dice di aver iniziato a leggere grazie ai fumetti di Topolino e del Corriere dei Piccoli ed è stato scoperto dai suoi editori nel lontano 1998 grazie al rinvenimento fortuito di una cartolina che lo ha condotto sino alla poltrona di una major editoriale che di nome fa Feltrinelli, il resto è sotto gli occhi dei suoi tanti lettori.
Quella di Francesco Dezio è con molta probabilità una delle migliori penne di tutto il Sud Italia e leggerlo è un’esperienza forte e dolorosa, perché non fa sconti a nessuno e non risparmia critiche ma è uno dei pochi atti di amore che possiamo fare per questo nostro pezzo d’Italia. Buona lettura!
- Da bambino cosa sognavi di diventare “da grande”?
Avevo idee poco chiare su quel che volessi diventare. Mi piaceva molto disegnare solo che non lo consideravo un lavoro ma un’attività dilettevole, non associabile alla fatica. Considerando, invece, i lavori veri da duri e puri, da stipendio vero, ammiravo molto uno zio maresciallo nelle forze armate il cui mestiere era quello di meccanico di automezzi corazzati e volevo esserlo anch’io: lavoro che ho anche praticato per un po’, in officina, per scoprire poi che non mi piaceva affatto e che, oltretutto, non ci ero portato.
- Qual è stato in assoluto il primo libro che hai letto e che ricordi?
Eh… mi poni una domanda a cui non è facile rispondere… A parte i fumetti di Topolino o del Corriere dei Piccoli o qualche fiaba, probabilmente il primo libro in assoluto che abbia mai letto è un’antologia scolastica degli anni ’60 (si chiamava il Mannello e, sempre se non ricordo male, c’erano delle illustrazioni a china, anche quelle mi piacevano moltissimo) ed era nello scaffale dei libri a casa dei nonni paterni; finivo sempre col soffermarmi su un racconto di Carlo Collodi, parlava di un suo compagno di scuola che portava dei pantaloni bianchi e a cui lui faceva un dispetto (gli rovesciava addosso un calamaio…) è una storia che mi affascinava per la sua ironia e naturalezza…
- Come sei stato scoperto dai tuoi editori?
Esordii nel lontano 1998… un giorno mi capitò tra le mani una cartolina di un editore pugliese che non conoscevo, si chiamava (e si chiama ancora) Besa in cui annunciava, pressappoco, “Ma ci siete o no narratori del sud estremo?” Avevo dei racconti, li inviai al loro indirizzo di posta elettronica e venni scelto (gli editor che mi selezionarono furono Gaetano Cappelli, Michele Trecca ed Enzo Verrengia) e poi pubblicato, assieme ad altri sette autori (tra cui Livio Romano e Ottavio Cappellani): così iniziò la mia carriera di narratore (con pause di riflessione – silenzi -, anche di molti anni in cui mi sono dedicato ad altro). Con Feltrinelli è andata invece così: Michele Trecca fondò una casa editrice (ZeroZeroSud) per la quale pubblicai Via da qui che conteneva in nuce l’ossatura di Nicola Rubino è entrato in fabbrica: inviò questo romanzo breve a Carlo Feltrinelli, al quale piacque, mi invitò nell’ufficio della casa editrice milanese per conoscermi e superato anche questo esame mi chiese di completarlo scrivendo la seconda parte e così feci: un anno e mezzo dopo si arrivò la pubblicazione. Giovanni Turi, l’editor(e) di TerraRossa l’ho conosciuto semplicemente per aver inviato i miei racconti inediti a Stilo Editrice, un giorno mi chiama e iniziamo a collaborare. Ad oggi mi ha pubblicato tutto quello che avevo.
- Hai qualche mania come scrittore?
Ci penso ma non me ne vengono in mente. Non ho degli orari fissi in cui inizio a scrivere, anche se, di solito, preferisco la mattina e andare avanti finché non mi stanco o non ho altri impegni cui far fronte.
- Un film, un libro e una canzone che ami o che più ti rappresentano?
Un gruppo che a me piace molto e che può aver lasciato tracce anche in ciò che scrivo (ed anche un brano che ho ascoltato più e più volte durante la stesura de La gente per bene) è Frankie teardrop dei Suicide del compianto Alan Vega e per impostazione, a sua volta, mi fa pensare a Ultima uscita per Brooklyn, ora ritradotto e ripubblicato da SUR, romanzo del grande Hubert Selby Jr. Si tratta di una canzone tra le più cupe e angosciose del rock in cui sferragliano rumori, echi e cafofonie da catena di montaggio in un gorgo abissale di grida lancinanti e, su tutto, la recitazione luciferina e ipnotica di Alan Vega che narra la storia di un sottoproletario che fa una strage, in famiglia. Un film che ho visto un sacco di volte e che per me è un cult è American Psycho di Mary Harron, a sua volta tratto dall’omonimo romanzo di Bret Easton Ellis.
- Un motivo per il quale consiglieresti a tutti di leggere i tuoi libri?
Perché quando scrivo cerco di barare il meno possibile e sono rari gli autori italiani che si concedono al lettore scarnificandosi senza ritegno. Ecco, io faccio parte di questa (rara, qui in Italia) categoria. Per questo dovrebbero leggermi.
- Quali sono i tuoi progetti futuri?
Continuare a scrivere (scelta economicamente suicida che non ripaga neppure dal punto di vista editoriale, visto che questo genere di narrazioni oggi sono emarginate dalla grande editoria, sempre più interessata all’intrattenimento puro che non al romanzo sociale – che per me è comunque letteratura). Inoltre perfezionarmi come illustratore, non arrendermi.