La confraternita dell’uva di John Fante: un padre, un figlio e le cose non dette
Essere genitori è sicuramente un compito difficile che richiede molta pazienza, tanta abnegazione ma soprattutto molti sacrifici e rinunce, eppure dicono che sia il mestiere più bello e più figo del mondo.
Allo stesso tempo però, credo che anche essere figli sia un compito piuttosto arduo e complesso, specie se come padre si ha un tipo come Nick Molise, un uomo rude e attaccabrighe, che quando non è impegnato con malta e mattoni, con il gioco d’azzardo, con le donne o con una bella damigiana colma di ottimo vino, trascorre il suo tempo a maledire l’America, la donna che ha sposato ma soprattutto i loro figli che per nulla al mondo, hanno voluto imparare ed ereditare il mestiere da muratore.
Eh già, perché Nick Molise è fatto così e non conosce le mezze misure, fin quando la sua devota moglie, non decide di divorziare – nonostante l’età e gli acciacchi di salute – da quel marito sbruffone, attaccabrighe e infedele, proprio a causa dell’ennesima – vera o presunta – scappatella del marito.
Viene così convocata a raccolta l’intera famiglia e soprattutto vengono richiamati i loro quattro figli che per salvare inevitabilmente la loro pellaccia e la loro salute mentale, si sono necessariamente dovuti allontanare da quella famiglia tanto calorosa ma dannatamente opprimente.
Fra tutti i figli però, un ruolo centrale nell’intera vicenda narrata ne La confraternita dell’uva, spetta proprio al primogenito Henry Molise, che nel frattempo a lasciato San Elmo per trasferirsi a Los Angeles, dove si è creato una bella famiglia ed è diventato un celebre e ricco scrittore di romanzi ed è proprio quella di Henry Molise, la voce narrante de La confraternita dell’uva, un libro che oltre ad essere scritto meravigliosamente bene, finisce per commuovere il lettore poiché è denso di sentimenti intensi, onesti eppure contrastanti che creano un vortice, dal quale sarà impossibile riemergere senza essersi prima attentamente confrontati e misurati con se stessi.
Poi accadde. Una sera, mentre la pioggia batteva sul tetto spiovente della cucina, un grande spirito scivolò per sempre nella mia vita. Reggevo il suo libro tra le mani e tremavo mentre mi parlava dell’uomo e del mondo, d’amore e di saggezza, di delitto e di castigo, e capii che non sarei mai più stato lo stesso. Il suo nome era Fëdor Michailovič Dostoevskij. Ne sapeva più lui di padri e figli di qualsiasi uomo al mondo, e così di fratelli e sorelle, di preti e mascalzoni, di colpa e di innocenza. Dostoevskij mi cambiò. L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov, Il giocatore. Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili. L’odio per mio padre si sciolse. Amavo mio padre, povero disgraziato sofferente e perseguitato. Amavo anche mia madre, e tutta la mia famiglia. Era tempo di diventare uomo, di lasciare San Elmo e andarmene nel mondo. Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere.
La confraternita dell’uva è il libro forse più onesto e più maturo di John Fante, nel quale oltre a misurarsi definitivamente con le sue origini italo-americane e oltre a descrivere uno spaccato di vita di un gruppo di wop, particolarmente dediti all’alcoolismo e alle scorribande e allo stesso tempo, cultori di un sincero rapporto di rispetto e di amicizia reciproca che ha condiviso l’esperienza forte e dolorosa dell’emigrazione prima e dell’emarginazione dopo; finisce per diventare il resoconto degli ultimi giorni di vita di quella figura paterna tanto disprezzata e contemporaneamente tanto segretamente amata e ammirata.
E sarà proprio la vicinanza forzata, di padre e figlio, dovuta alla presa in carico di uno strampalato lavoro nella fredda e gelida montagna, a rendere i due uomini tanto abbruttiti e contemporaneamente tanto simili, al punto di annullare qualsiasi differenza fra i due e relegarli in una condizione di assoluta parità.
Ero anch’io un padre, ma non volevo quel ruolo. Volevo tornare indietro nel tempo, quand’ero piccolo e mio padre girava per casa, forte e rumoroso. Fanculo la paternità. Non ci ero tagliato. Ero nato per fare il figlio.
Probabilmente, la costruzione di quell’essiccatoio, era necessaria ad entrambi gli uomini, sia per placare i loro dissidi e sia per far emergere il loro peggio ma anche il loro meglio, non a caso, fra padre e figlio, c’è un continuo scambio di ruoli che permette al lettore di avere un punto di vista quasi esclusivo e onnisciente, dal quale assistere alla vicenda narrata.
La confraternita dell’uva è un libro che fa sorridere per via del tono comico e per via dell’acceso scambio di battute – tra l’altro perfette e incalzanti – ma allo stesso tempo, è un libro doloroso e malinconico, che commuove perché permette ad un figlio di misurarsi con la morte di un genitore e permette di far pace con il proprio passato, visto che in fondo, è proprio dal passato e dai ricordi che non si può mai scappare.
Songtrack:
La confraternita dell’uva, John Fante, Einaudi, 2004 pp.232. Traduzione Francesco Durante.