Intervista a Giorgia Tribuiani: un esordio potente nella narrativa italiana

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Lo scorso giugno è uscito Guasti, il romanzo d’esordio di Giorgia Tribuiani pubblicato da Voland e immediatamente diventato un libro che ha catturato l’attenzione e i pareri favorevoli della critica e dei lettori ma soprattutto un’opera che ha dimostrato tutto il talento e l’attitudine di questa giovane scrittrice di origine marchigiana, che si è cimentata con un tema non facile e poco noto: la plastinazione.

La plastinazione è una tecnica che consente la perfetta conservazione dei tessuti e degli organi del corpo umano dopo la morte e sarà il fulcro centrale entro il quale ruoterà la storia d’amore – o sarebbe meglio dire di ossessione – narrata da Giorgia Tribuiani.

Il romanzo narra, infatti, di Giada e del suo compagno fotografo che prima della sua morte, firma un contratto nel quale accetta di essere plastinato diventando così una vera e propria opera d’arte, messa addirittura in mostra e scatenando la disperazione della ragazza.

Il libro è suddiviso in 30 capitoli, che rappresentano i 30 giorni a partire dall’allestimento della mostra sino alla sua chiusura e sino a quando, inaspettatamente, un collezionista si dimostrerà piuttosto affascinato e interessato all’opera d’arte a tal punto da volerla acquistare.

Guasti è un esordio potente che parte dal tema del corpo, passa per l’arte e finisce per interrogarsi su tutta una serie di argomenti correlati: l’amore, la morte, il lutto, la memoria, l’abbandono e la follia, merito della scrittura di Giorgia Tribuiani che è sviluppata come una sorta di inarrestabile flusso di coscienza che scuoterà costantemente il lettore e lo condurrà a porsi una serie di interrogativi.

Intervista a Giorgia Tribuiani


Da bambina cosa sognavi di diventare “da grande”?

Una scrittrice: non ho mai desiderato un futuro diverso da questo. Ovviamente a sette anni – come anche a sedici, quando ho iniziato a scrivere tutti i giorni – non avevo la consapevolezza che sarebbe arrivata poi, però da bambina passavo molto tempo da sola, e mia madre, la sera, leggeva le storie che durante il giorno scrivevo sui quadernetti e sui “diari segreti” che ricevevo per i compleanni, e mi piaceva l’idea che ci fosse un tempo dedicato alle mie immaginazioni; che in un certo momento della giornata la sua attenzione venisse dedicata all’atto di guardarmi, di capirmi. Alla fine non è anche un po’ per questo, che si scrive… per il desiderio di essere guardati, compresi e magari anche amati?

– Qual è stato in assoluto il primo libro che hai letto e che ricordi?

Una raccolta per bambini di miti e leggende. Mio padre me la regalò e mi promise dei soldi se l’avessi terminata entro una settimana; una grande fregatura, considerato che per il resto della vita, anziché incassare, per leggere avrei speso stipendi! Scherzi a parte: la domanda è molto interessante, perché furono proprio le prime letture a influenzare il mio immaginario, la mia ricerca del particolare fantastico per parlare della realtà concreta. Penso a La storia infinita, Il segreto di Agnes Cecilia (un libro del Battello a vapore che ricordo inquietantissimo) e il racconto Il gatto nero di Poe, che mi regalò tutta una serie di notti insonni.

– Come sei stata scoperta dai tuoi editori?

Ho conosciuto Daniela Di Sora grazie agli incontri di scouting letterario organizzati dalla Biblioteca San Giorgio di Pistoia nell’ambito del festival “L’anno che verrà – I libri che leggeremo”. Era possibile candidarsi inviando un estratto del romanzo, la sinossi e una lettera di presentazione che spiegasse la scelta dell’editore (oltre a Voland partecipavano all’iniziativa anche Marcos y Marcos ed e/o). È stata un’iniziativa lodevole. È raro che un autore inedito abbia venti minuti a disposizione per raccontare a un editore le proprie storie, il proprio percorso, i modelli, i progetti futuri.

Hai qualche mania come scrittrice?

Per lavorare a un testo ho bisogno di una porta da poter chiudere e di una bottiglia di Coca Cola sul comodino (se non è in casa sono disposta a prendere la macchina per recuperarla), ma soprattutto, prima di iniziare a scrivere, devo ascoltare la “colonna sonora” della mia storia.

Per ognuno dei miei testi esiste una canzone che, ascoltata prima di iniziare una sessione di scrittura, mi permette di dimenticare la realtà quotidiana e di rientrare nell’immaginazione di quel romanzo o di quel racconto, di sostituire le pareti della mia camera con quelle del posto in cui la storia è ambientata. Di solito si tratta di canzoni tratte da film o tematicamente vicine a quello che sto raccontando: qualche giorno fa, per esempio, ho terminato di scrivere un racconto nostalgico la cui “colonna sonora” era Incontro di Guccini.

– Un film, un libro e una canzone che ami o che più ti rappresentano?

Se mi lasci ti cancello, Solaris e Amico fragile.

È buffo: prima di rispondere alla tua domanda non mi ero mai resa conto che le tre opere che ho sempre vissuto come più viscerali fossero tre storie – perché anche la canzone di Fabrizio De André è in fin dei conti una storia – tutte incentrate sulla ricerca quasi disperata di un contatto profondo con l’altro, sul superamento di quel mistero che non potrà mai essere svelato, sull’angoscia dell’incomunicabilità e sull’appiglio della memoria.

– Un motivo per il quale consiglieresti a tutti di leggere Guasti?

Perché è un libro di domande. Presenta una situazione al limite – una donna si trova di fronte al cadavere del proprio uomo, trasformato in opera d’arte – e di fronte all’esempio di questo limite chiama il lettore a immedesimarsi e a porsi delle domande, da quelle più universali sulla vita e sull’arte a quelle più vicine alla quotidianità: la difficoltà di sentirsi all’altezza di qualcuno, la paura di non saper mostrare l’affetto, la ricerca di alibi che permettano di non partecipare al gioco per non fallire.

Guasti è un gioco di specchi (l’uomo plastinato è lo specchio di Giada, per esempio, e attraverso il proprio “guasto irreparabile” le mostra per contrasto che lei è ancora in tempo per reagire) e si offre a sua volta come specchio: non ci sono tesi o verità, solo questioni. In fondo si tratta solo e sempre di punti di vista, perché come recita l’esergo: “La vita è uno stato mentale”.

– Quali sono i tuoi progetti futuri?

Ho terminato di scrivere una storia che si chiama Blu, a metà tra il romanzo di formazione artistica e la risposta alla domanda: si può fare della malattia un’opera d’arte? Un quesito che in qualche modo è il naturale proseguimento di quello posto con Guasti, dove mi domandavo se l’uomo potesse essere, appunto, un’opera d’arte.

In questo caso la protagonista, Blu, è una diciassettenne ossessionata dalla purezza e dall’impossibilità di raggiungerla. Soffre del disturbo ossessivo-compulsivo e, quando entra in contatto con il mondo della performance art, scopre che esiste un’espressione artistica che ha alla sua base proprio il rituale. Una scoperta che potrebbe essere in parte salvifica, o consolatoria, ma che genera in Blu una vera ossessione per la propria insegnante.

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